Mastering e “Loudness War” – parte 1/3

Lasciamo perdere per un po’ le polemiche e la guerra con Avid per parlare di un argomento decisamente più tecnico, il mastering.

Con questo termine si intendono tutte le tecniche utilizzabili per ottimizzare il mix di un brano o di un album agendo su diversi parametri ed eventualmente correggendo equalizzazione, pressione sonora percepita, immagine stereo, profondità e a volte anche i livelli di alcuni strumenti o voci.

Il mastering si è iniziato ad usare dopo l’invenzione del nastro magnetico, perchè si era notato che dopo il mix, se si sottoponeva l’audio ad un ulteriore trattamento dinamico e di equalizzazione, il prodotto finito migliorava ulteriormente, garantendo un più ampio successo commerciale.

Ai giorni nostri il mastering può essere fatto con successo sia in analogico, usando macchine straordinariamente belle quanto costose, sia in digitale con i plug-ins.
Ovvio ma doveroso dire che in ogni caso la differenza qualitativa verrà fatta dalle orecchie del mastering engineer, non tanto dall’utilizzo di analogico o digitale.

Vediamo quindi dove e come si può intervenire con il mastering riferendomi al trattamento del singolo brano.

Equalizzazione, ovvero cambiare il “colore” del brano attraverso equilibri differenti fra le varie frequenze, eliminazione di suoni (armoniche) indesiderate, utilizzo creativo e dinamico dei filtri per dare più “carattere” alle diverse parti del brano.

L’immagine stereo, cioè l’apertura (in larghezza) del mix, può facilmente essere modificata chiudendola o aprendola, fino ad arrivare a percepirla ben oltre i confini fisici dei monitor da cui si sta ascoltando, merito della psicoacustica e di un sapiente utilizzo delle controfasi.
Oltre a questo è possibile modificare indipendentemente il contenuto puramente mono, ovvero al centro del mix, da quello stereo, ovvero i suoni che sono “aperti” tra left e right.

La profondità percepita del mix, ovvero quella che io chiamo “terza dimensione” si può modificare ed alterare con delle tecniche legate sia all’immagine stereo che all’uso di particolari riverberi e processori.

E’ possibile in fase di mix utilizzare una tecnica che si chiama “Stem Mixing” che prevede (una volta che il mix è pronto) il passaggio separato di gruppi di tracce che rimangono
separati dal resto, ovvero il gruppo ritmico (batteria-percussioni) il basso (o chi ne fa le veci) gli strumenti armonici (chitarre, tastiere eccetera), l’effettistica ma soprattutto la voce.
In questo modo durante il mastering, il fonico ha la libertà di cambiare senza effetti collaterali i livelli delle varie parti del mix.
Realisticamente questa tecnica si limita a fornire solamente la base del brano con la voce solista e tutti gli effetti separatamente.

Già con questa breve panoramica si capisce che le possibilità di intervento possono essere importanti e determinanti in senso positivo se usate bene, devastanti se usate male.
La grande differenza viene fatta da quel mastering engineer che ottimizza a proprio gusto il brano (o l’album) a cui sta lavorando, eliminandone i difetti residui ma senza modificare l’equilibrio ed il carattere del mix.

Ho volutamente lasciato per il blog successivo la descizione del parametro più famoso e famigerato del processo di mastering, ovvero la modifica della dinamica del brano e soprattutto della pressione sonora percepita, perchè questo argomento, da solo è troppo vasto ed importante da meritare un capitolo a parte.

Inoltre, sempre alla fine della seconda puntata di questo blog, vi dirò i parametri che dovrete rispettare quando preparate il vostro mix da mandare allo studio che farà il mastering.

A dopo!!!

😉

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Roberto “Robbo” Vigo
Zerodieci Studio